
Tra bit e battiti: come mi sono ritrovato a correre per boschi e sentieri
Vent’anni fa, la mia vita era un continuo pendolare tra Lecco, Milano e Como. A Lecco la casa, all’Università di Milano studiavo Informatica Musicale, mentre al Conservatorio di Como mi immergevo nella Musica Elettronica. Il mio mondo era fatto di note, codici, suoni e possibilità creative infinite. O almeno così mi sembrava allora.
Le mie giornate? Un vero e proprio tetris logistico. Lezioni all’università, poi di corsa (ironia della sorte) in stazione per prendere il treno verso Como. Ore passate sui mezzi, con lo zaino pieno di libri e il laptop sempre a portata di mano. E quando finalmente arrivavo a casa? Beh, c’era sempre qualche progetto da finire, qualche algoritmo da perfezionare, qualche suono da manipolare.
L’attività fisica era un lusso che mi concedevo raramente. Certo, ogni tanto uscivo a correre. Era il mio modo per staccare la spina, per liberare la mente dal groviglio di formule e spartiti che la occupavano costantemente. Una corsa veloce lungo le sponde del lago, e tornavo ai miei amati (e odiati) schermi con la mente un po’ più leggera. Nei fine settimana senza concerti o progetti da consegnare, una sgambata in montagna non me la levava nessuno.
Un giorno, tra una lezione e l’altra in Conservatorio, qualcuno mi disse: “Se ti piace la montagna, devi parlare con quello di Morbegno del primo anno”. Quel “quello di Morbegno” era Saverio Monti, e fu lui a introdurmi al mondo della corsa in montagna. Lo incontrai per caso durante una pausa tra le lezioni, e per la prima volta sentii parlare di sky e trail running.
Ricordo ancora la sua espressione entusiasta mentre mi raccontava della Transvulcania, una gara che stava preparando in quel periodo e che si svolge alle Canarie. “Partiamo al buio, che è ancora notte” mi spiegava, “altrimenti poi fa troppo caldo per correre su e giù per montagne e vulcani”. Io lo guardavo con un misto di ammirazione e incredulità. Correre sui vulcani? L’ha detto veramente? Ma non era più divertente (e semplice) programmare un sintetizzatore per simulare il suono di un’eruzione?
Negli anni successivi, mentre passavamo giornate tra codici, suoni ed esami, Saverio vinceva gare in giro per le Alpi e realizzava imprese di endurance decisamente fuori dagli schemi. Ogni tanto ci incrociavamo, per collaborare a qualche progetto più o meno artistico e lo vedevo allenarsi all’alba, o uscire a correre dopo nottate di lavoro in teatro. Una parte di me lo ammirava, un’altra pensava che fosse un po’ fuori di testa.
Col tempo, altri amici si lasciarono conquistare dalla corsa in montagna. Li osservavo con curiosità, ma senza troppa invidia. Dopotutto, avevo i miei impegni musicali. La corsa rimaneva uno sfogo occasionale, un modo per schiarirmi le idee tra un impegno e l’altro. “Come fanno a correre tutti quei chilometri?” mi chiedevo. “Non hanno progetti da finire, tesi da scrivere, brani da comporre?”
Non immaginavo che, quindici anni dopo, sarei stato io quello che si alzava all’alba per correre sui sentieri. Ma questa è un’altra storia, che inizia con un’ernia lombare e finisce… beh, in realtà non è ancora finita.
La svolta è arrivata nel 2020, ironicamente mascherata da una crisi: un’ernia (grazie tante, vita sedentaria tra computer e chitarra!) mi ha costretto a un’estate di dolori e immobilità. “Addio corsa,” pensavo. Ma non mi andava giù. Nell’autunno, decisi di farmi “aggiustare” in un centro di medicina sportiva della mia città. Durante una sessione il ragazzo che mi seguiva, mi indicò un altro membro del team: “Se ti piace correre, devi parlare con lui”. Era Lorenzo Beltrami. “È un campione, ma un campione vero,” aggiunse. E Lorenzo, qualche seduta dopo, mi disse: “Vedrai che ti farò tornare a correre”.
E così fu. Passo dopo passo, esercizio dopo esercizio, tornai a correre. Il 2021 segnò l’inizio di un nuovo capitolo: mi affidai completamente a Lorenzo. La sua insistenza gentile – “Dai, prova, fai una gara” – si scontrava con la mia resistenza: “Non mi interessa, nei weekend suono, non ho tempo”. Ma alla fine, complice forse un aperitivo natalizio un po’ troppo “allegro”, mi ritrovai iscritto a una gara.
D’inverno.
Sulla neve.
È stata un’esperienza illuminante, anche se nei giorni successivi mi muovevo come un robot arrugginito. In quell’occasione scoprii qualcosa di straordinario: la gioia indescrivibile di raggiungere un obiettivo che fino a poco prima sembrava impossibile. Nei successivi due anni, ho continuato a prepararmi e ho corso diverse gare in scenari mozzafiato, completando percorsi che mi hanno spinto oltre a quelli che credevo essere i miei limiti. E in quei momenti, negli ultimi chilometri di ogni sfida, ho sperimentato una felicità pura, primitiva. Il corpo invaso da endorfine, il sorriso che si allarga nonostante la fatica, forse anche qualche lacrima trattenuta a fatica.
Felicità allo stato puro.

A volte ci vogliono anni per suonare come te stesso
Miles Davis
Mentre mi trovavo a correre su e giù per sentieri che sembravano non finire mai, con i polmoni che bruciavano e le gambe che protestavano a ogni passo, ho iniziato a notare un parallelismo sorprendente tra la mia passione per la corsa e il mio amore per la musica. Pensateci. Sia che stiate preparando una maratona o imparando un nuovo pezzo al pianoforte, il principio è lo stesso: ripetizione, ripetizione, ripetizione. E poi ancora ripetizione. Non esistono scorciatoie, né nella corsa né nello studio di uno strumento.
Il maratoneta Eliud Kipchoge afferma: “Solo la disciplina ti porterà dove vuoi andare. La motivazione ti fa iniziare, ma la disciplina ti fa andare avanti.” “Fai pratica e migliorerai. È molto semplice” diceva il compositore Philip Glass.
La costanza è la chiave in entrambi i mondi. Come corridore, ho imparato che non esistono risultati senza un allenamento regolare e persistente. Allo stesso modo, come musicista, so che solo attraverso ore di pratica quotidiana si può raggiungere la maestria. “Se non pratico un giorno, lo noto io. Se non pratico due giorni, lo nota mia moglie. Se non pratico tre giorni, lo nota il pubblico” è un adagio noto nel mondo musicale.
Ci sono state molte volte in cui, dopo ore di allenamento, sono riuscito finalmente a completare un percorso che prima mi sembrava impossibile. La sensazione? Esattamente la stessa di quando, dopo settimane di prove, sono riuscito a suonare quel passaggio particolarmente ostico senza sbagliare una nota. Una miscela esplosiva di gioia, orgoglio e incredulità. E parlando di allenamento, vi siete mai chiesti perché i musicisti chiamano “esercizi” quelle noiose scale che ripetono all’infinito? Perché è esattamente quello che sono: l’equivalente musicale del fare chilometri su chilometri di corsa. Non è glamour, non è divertente, ma è necessario. A volte mi chiedo quanti km ho fatto con le dita su e giù per il manico della chitarra.
Certo, c’è una differenza fondamentale: quando corro, sudo. Quando suono… beh, sudo lo stesso, ma almeno sono al chiuso e nessuno se ne accorge (si spera).
Ma la similitudine più grande? Il fallimento. Oh sì, perché sia nella corsa che nella musica, si fallisce. Tanto. Si cade, ci si sbuccia le ginocchia (metaforicamente nella musica, fin troppo letteralmente nella corsa), si stecca una nota, si perde il ritmo. Ma si continua. Perché? Perché siamo un po’ masochisti? Forse. Ma soprattutto perché sappiamo che dietro l’angolo c’è quella performance perfetta, quella corsa in cui tutto fila liscio, quel concerto in cui ogni nota è al posto giusto. E alla fine, che si tratti di tagliare un traguardo o di ricevere l’applauso del pubblico, la sensazione è la stessa: ce l’ho fatta. Nonostante tutto, ce l’ho fatta.
Guardandomi indietro, mi rendo conto di quanto sia stato fortunato. Ho avuto la possibilità di scoprire due passioni che, seppur diverse, mi hanno insegnato le stesse preziose lezioni: perseveranza, dedizione e la gioia di superare i propri limiti. Ma la verità è che non ce l’avrei mai fatta da solo. Ci sono state persone che mi hanno spinto (a volte letteralmente) su per sentieri impervi, che mi hanno incoraggiato quando volevo mollare, che mi hanno insegnato i segreti del mestiere, sia nella corsa che nella musica.
A Saverio, che mi ha fatto intravedere un mondo di possibilità che non sapevo esistessero. A Lorenzo, che mi ha rimesso in piedi quando pensavo di non poter più correre. Ai miei amici corridori, che mi hanno trascinato in avventure che mai avrei immaginato di intraprendere.
E poi ci sono i miei mentori e idoli musicali, i colleghi musicisti che mi hanno guidato attraverso le complessità dell’arte dei suoni. Ognuno di loro ha contribuito a farmi diventare il musicista e il produttore che sono oggi.
La corsa mi ha regalato momenti di pura gioia e spensieratezza, ma anche la forza di affrontare periodi difficili. La musica mi ha dato un linguaggio per esprimere ciò che con le parole spesso non riesco a dire. Entrambe mi hanno insegnato che i limiti esistono solo nella nostra mente.
Quindi, che sia correndo su un sentiero di montagna o seduto davanti a un mixer in studio, ricordo sempre che ogni passo, ogni nota, è un omaggio a tutti coloro che hanno creduto in me. E spero sempre, che tramite il mio lavoro, potrò a mia volta ispirare qualcun altro a trovare il proprio suono e la propria dimensione artistica
Perché alla fine, che si tratti di correre o di fare musica, l’importante è continuare a muoversi, a creare, a vivere. E magari, ogni tanto, non dimenticarsi di fermarsi un attimo, respirare profondamente e godersi il panorama.
Letture consigliate:
“L’arte di correre”, Haruki Murakami
“Niente è impossibile”, Kilian Jornet